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Cantico dell’uomo nudo
Oèdipus edizioni 2018

Cantico dell’uomo nudo
monologhi e altri testi brevi

Oèdipus edizioni 2018


Avvertenze dell’autrice


‘U n mormorio di voci mi segue nella mia quotidianità e non solo di giorno e non sono solo le mie voci, o meglio, la mia voce.
Quando scrivo, esse si fanno più vicine.
Ricordo Octavio Paz: chi canta dalle sponde del foglio?

Tutto è voce: quella dei ricordi, dei poeti, dei musicisti, dei cantautori, di mamma e papà, del popolo, della radio, dei diseredati.
Ci sono voci in dissolvenza e voci che rimangono scolpite dentro e restano lì, uguali ed eterne, come quelle di un congiunto morto.
Altre in continua trasformazione, lunga e lenta, o breve e tellurica.
Voci corali, eppure con la loro precisa identità.
Da un certo punto della vita in poi, c’è anche la voce della morte, che guadagna chiarezza, perché vuol essere ascoltata.
Di tutte queste voci, si compongono il mio essere e il mio caleidoscopico.
La pubblicazione di questi scritti, è una condivisione di voci.


 

Hassan


Stesi in questa barca. Intorno, solo mare…
Perché dico stesi? Non c’è spazio qui per stare stesi.
Gli uni sugli altri, come nelle camere a gas, quasi soffochiamo.
Non distinguo il mio fiato da quello del vicino. E il mio vicino da quello del suo.
I nostri fiati mescolati non hanno identità…

Se nessuno ci trova, affonderemo.
Per ora, affondano i pensieri. Già tremolano a pelo d’acqua.

Quando sono salito sulla barca, guardavo il cielo. Mi sembrava di vedere i miei sogni accompagnarsi ai gabbiani. I sogni stampano sorrisi, deboli sì ma sorrisi, contro le nuvole. Il cuore? Leggero...
Anche noi sfortunati abbiamo sogni. Pieni di speranza, e trepidazione.
Ho sogni disperati da quand’ero bambino, ed ora che a vent’anni sono un uomo adulto, un giovane vecchio uomo adulto, in ogni sogno c’è una voragine di disperazione. Ho vissuto nella mia terra amandola, ma avevo nel cuore e negli occhi terre lontane, di cui mi raccontavano. Terre dove si può essere felici perché mangi ogni giorno, non una volta ogni tanto, ogni giorno. Terre dove vai per strada come fossi il padrone del mondo, dove ti danno un lavoro e tu acquisti dignità. Cammini in una grande città e nemmeno ti guardano, perché fai parte dei tanti, tra autobus, bimbi a passeggio, biciclette che sfrecciano, e rombo di motori, e frastuono di clacson, nessuno ha tempo di guardarti. E poi perché dovrebbero guardarti, se sei come gli altri?
Volevo migrare per essere uno dei tanti in un paese civile, dove lavori e poi torni a casa e provvedi alla tua famiglia, e la tua famiglia è orgogliosa di te. Fai sacrifici, e mandi dei soldi in patria per tua madre e i tuoi fratelli, perché vivano meglio. Immagini le loro facce quando li ricevono, le loro mani vuote che si riempiono di qualcosa. Così, mi sono imbarcato, con solo i panni che ho addosso, e incollati gli uni agli altri abbiamo cominciato a navigare, senza mai una sosta, navigare.
Qui però tutto è difficile, anche svuotare la vescica. Il corpo del tuo vicino è il confine del tuo e ci sono bimbi che gemono tutto il tempo e madri che impazziscono di dolore. Una donna ha partorito in mezzo a noi, il figlio è schizzato addosso a un ragazzo, che non sapeva cosa fare. Abbiamo tagliato il cordone ombelicale con un coltello, in assenza di forbici, e tamponato le sue ferite con uno straccio bagnato. Non abbiamo cibo, non c’era spazio per caricarlo, e la madre, che non ha latte, ora inzuppa la sua veste con acqua di mare e lascia che il piccino ne succhi un lembo . Adesso il neonato ha preso a vomitare, e nessuno sa come aiutarla. E’ stata una follia per queste donne imbarcarsi, ma ormai la follia è ciò che respiriamo, la follia è la nostra aria, e in fondo speriamo che prenda anche la mente, così non riconosceremo la morte quando arriva. Non credo manchi molto, da un’ora si sono alzate onde terribili. Tutti gli uccelli sono fuggiti. Beati loro che possono, che non hanno bisogno di un maledetto barcone, chiesto a peso d’oro a un maledetto trafficante che dopo aver preso i soldi ci ha lasciati ed è scappato senza nemmeno metterci in mano il timone. Giravamo su noi stessi e abbiamo rischiato di capovolgerci subito. Quando abbiamo finalmente preso il largo, abbiamo cominciato a pregare, volevamo che Dio fosse con noi. Ma credo, anzi no credo, sono proprio sicuro, che Lui ci ha dimenticati, sarà impegnato da qualche altra parte.
La prima notte una donna si è gettata in mare ed è morta. Dicono che non sopportasse di avere lasciato a terra il figlio, di avere preso sulla barca il posto di lui. Abbiamo viaggiato con l’ombra del suo fantasma su di noi, come un pipistrello, come una maledizione. Volevamo pregare in coro, ma eravamo troppo spaventati, non ce l’abbiamo fatta. Dalle nostre bocche uscivano solo grida e invocazioni, grida e invocazioni…
Il mare è stato sempre mosso, poi si è agitato. La barca fa acqua, se un’onda alta non ci butta giù, moriremo lo stesso perché si sta facendo sempre più pesante. L’odore di piscio e vomito e merda è disgustoso, ma noi non lo sentiamo. Se ancora sentissimo qualcosa, sarebbe il dolore, ma anche quello se ne sta andando, la mente è fibrillante e confusa, meglio così. Uhuhhh. Ora chiudo gli occhi e aspetto. Può darsi che le ore diventino minuti e che i minuti silenziosamente si consumino. Nessuno dice niente, nessuno ha la forza di parlare. Il neonato non vagisce. Il suo visino si è colorato di giallo. Esce dalla veste della mamma come la testa di un piccolo limone. La madre lo riscalda col fiato. Ai lati della bocca gli è rimasta un poco di schiuma. Abbiamo goffi volti tragici, qualche sorriso ebete con pochi denti, le membra arrese. Tra poco non avremo neanche più noi.


Invece mi hanno trovato, salvato. Ero aggrappato a un pezzo di legno della barca, coi polmoni zuppi d’acqua. In un mare che si è calmato all’improvviso, mostrando tutti i cadaveri sparpagliati qua e là come galleggianti. Alcuni hanno gli occhi aperti, e siccome le sclere dei neri sembrano d’avorio, si vedono da lontano… Siamo solo due i sopravvissuti, io e quel ragazzo di cui dicevo, cui la breve vita di un neonato si è poggiata in grembo. Lui è vivo, ma sembra non esserci più. Non parla e i suoi occhi sono da qualche altra parte, chissà. Una nave commerciale ci ha avvistati e presi. Ci hanno spogliati, riscaldati, vestiti con delle coperte. Non ho cognizione di quanto tempo sia passato da quando siamo affondati, né di quanto sono stato in acqua, forse perdevo i sensi, li perdevo e poi ritornavano. Non so nemmeno da quanto siamo qui, non ho più coordinate, se non quelle di questo cielo nitido e buono, che mi dice che è giorno. Dunque possiedo ancora la vita, anche se non so cosa ne farò, o meglio cosa me ne lasceranno fare. Purtroppo non sono propriamente un uomo libero, ma almeno vivo, anche se è dura essere un sopravvissuto, vivo mentre 400 persone sono morte. Mi sento come se avessi rubato la vita dal petto degli altri, soprattutto da quello dei bambini, e dei loro volti faccio un ripasso. Dov’è quel piccolo appena nato che sporgeva la testa dalla maglia della madre come un limoncino? Perché Dio lo ha fatto nascere e poi subito morire? Sarebbe stato meglio se fosse morto in pancia, almeno avrebbe avuto come bara il ventre soffice della mamma. Meglio ancora se non fosse mai stato nemmeno concepito. E i ragazzi? E le donne? E i foulard con cui arrotolano turbanti per proteggersi dal sole? Dio come luccicano, come sono belli gli occhi delle nostre donne quando attorno al viso hanno un foulard disegnato di fiori! E l’hennè ricamato sulle mani e il seno che ballonzola quando camminano. Come sono fiere le nostre donne quando ti guardano dritto negli occhi…
Vecchi per fortuna non ce n’erano, ma non so se si può definire una fortuna. Loro accettano il proprio destino fino alla fine, non vanno alla ricerca disperata di soldi da dare a un trafficante di carne umana. Ora chiudo gli occhi, ma non voglio pensare alle terre lontane che sono il mio miraggio. Voglio pensare solo al mio paese, coi sentieri che conosco bene, che fanno il saliscendi che piace tanto al mio mulo, lui li percorre dondolando le chiappe come una vecchia contadina, al familiare odore di rancido di casa mia, alla capretta che mi offre il latte dopo che io le do da mangiare un ciuffo d’erba, alla pacca che mio padre mi ha dato sulla spalla prima di lasciarci. Gli tremava la mano ma non voleva darlo a vedere. Ho bisogno di aggrapparmi a quelli che sono già ricordi ma che non voglio perdere. E poi, voglio concentrarmi sull’abbraccio dei miei, se mai dovessi tornare.
Ma di sicuro prima o poi tornerò, non posso morire in una terra che non sia la MIA Terra.