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Gino Bartali

Uscito sul Quotidiano del Sud - Edizione di Salerno il 3-5-6 gennaio 2022
Pagina culturale

 
Quanta strada nei miei sandali
Quanta ne avrà fatta Bartali
Quel naso triste come una salita
Quegli occhi allegri
Da italiano in gita

Parto da qui, dalla canzone che Paolo Conte dedicò a Gino Bartali, e che già ne accenna il profilo.
Occhi allegri però non direi. Non era allegro Bartali. Magari quando vinceva.
Amava talmente il ciclismo, che a praticarlo gli avrà dato insieme ad altre cose tanta gioia.
Lo amava sin da piccolino e nei suoi sogni vagheggiava solo biciclette. Il padre non voleva sentirne parlare, secondo lui la bici serviva giusto per spostarsi e quello del ciclismo era un mestiere sfigato.
Gino da bambino imparò a pedalare proprio prendendo di nascosto quella del padre, ed infilandosi sotto la canna, così che guidava tutto sbilanciato, con la testa e il busto da un lato e una sola gamba dall’altro.
Per scrivere questo articolo, mi sono rifatta alla biografia forse più importante e veritiera su Bartali. Ce ne sono tante. Mi sono appassionata a ‘La strada del coraggio’, scritta dai fratelli McConnon, nati a Toronto e trapiantati a New York, che hanno intervistato per più di duecento ore la vedova Adriana e il figlio Andrea. Poi amici, compagni di squadra e altri testimoni ancora. Tutto documentato.
Ma vediamo di sapere di Ginettaccio o Il vecchio (i suoi soprannomi più diffusi). L’uomo che pareva ‘saldato alla bicicletta in modo sovrumano, quasi innaturale’.
Nato il 18 luglio del 1914 (e cresciuto) a Ponte Ema, un paese di lavandaie a sei chilometri da Firenze. La sua povera casa si componeva di una sola stanza, dove viveva coi genitori, le due sorelle e il fratello Giulio. Sei persone. Condividevano con i vicini del caseggiato un unico bagno fatto da una panca su cui ci si sedeva. Al centro un buco. Acqua niente, si andava a prenderla con le brocche alla fontana del paese.
Ma non avendo altri termini di paragone, quella specie di casa a Gino bastava. Del resto, i ragazzi vivevano per lo più per strada. Lui era molto esile, e altrettanto ostinato. Quando giocava coi compagni, prendeva un sacco di botte e tornava pieno di graffi e lividi, ma nei litigi non demordeva.
Il padre faceva il bracciante a giornata e simpatizzava per il Partito socialista; la madre lavorava da contadina, ma anche da donna delle pulizie, lavandaia, ricamatrice. Tutti i figli, uomini e donne, la aiutavano nel ricamo, soprattutto Gino, particolarmente bravo con le trine.
Poi arrivò per Gino il momento di fare la sesta classe, il che significava andare a Firenze, dunque avere necessariamente una bicicletta. Il padre Torello, mettendo insieme i suoi risparmi e quelli delle figlie, gliene comprò una usata. Su quel rudere cominciò l’avventura di Gino, che per andare a Firenze sceglieva sempre i tragitti più lunghi e correva veloce per seminare i compagni. Per le strade della città, conobbe le famose bancarelle, e le macellerie che vendevano frittelle di sangue di maiale. Una si faceva pubblicità con l’immagine di un porco che diceva ‘Sono morto per voi’. Gino, golosissimo, gironzolava sempre attorno ai peracottari, venditori di pere cotte sciroppate. Naturalmente approdò presto alla famosa bottega del cugino più anziano Armando Sizzi, che riparava biciclette. Con una chiave inglese perennemente in mano, Sizzi parlava tanto e mentre parlava aggiustava. Fu lui che presentò a Gino uno dei suoi clienti più illustri, ebreo: Giacomo Goldenberg, un giovane che Gino ammirò da subito, ritenendolo un vero cosmopolita. Sizzi, Gino e Giacomo, allora non sapevano di gettare le fondamenta di una grande amicizia. Nel 1924 (Gino aveva dieci anni), il socialista Giacomo Matteotti fu ucciso. Da quel momento il padre Torello non poté mai più leggere liberamente i suoi libri. Inoltre fu assassinato anche il suo datore di lavoro, Pilati. Torello ne rimase sconvolto…
Gino e suo fratello Giulio, di due anni più piccolo, erano inseparabili, ed entrambi fortissimi sulla bici, ma i genitori, soprattutto il padre, li tenevano d’occhio. Divieto assoluto anche solo di pensare di fare i ciclisti.
Intanto proprio in quegli anni il ciclismo incendiava le fantasie dei tifosi, soprattutto d’estate. Gli sport dell’epoca erano solo la boxe, il calcio e il ciclismo. Il ciclismo tirava molto sulle testate giornalistiche. I ciclisti venivano descritti in termini omerici, come gladiatori della fatica (molti venivano da famiglie di minatori, boscaioli, mugnai, dunque operai che da diseredati acquistavano il valore di cavalieri, in sella a cavalli di ferro).
Eppure la vita di Bartali, forse il più grande ciclista di tutti i tempi, non fu facile.
Si era messo ad allenarsi, affrontando paurose salite, ma la sua alimentazione non era giusta. Capitava di rado che a tavola ci fosse carne. Anche i suoi compagni gli rendevano la vita difficile, come quella volta che a 15 anni per scherzo lo seppellirono sotto la neve, dove dovette soccombere. La madre lo trovò lì, già in preda ai tremori del freddo e della febbre. Non ebbe voce per sei mesi, ma naturalmente superò quello che sarebbe stato solo uno dei brutti momenti della sua vita, nemmeno il peggiore. Dopo questa disavventura si beccò pure un altro soprannome: Careggi, come il principale ospedale di Firenze.
Sempre a 15 anni gli capitò che il padre scoprisse il manubrio curvo montato alla sua bicicletta. L’aveva prestata a un amico che lo aveva sostituito e poi non rimesso a posto. Torello dette in escandescenze. Non sopportava neanche l’idea che un figlio così cagionevole di salute facesse uno sport duro e pericoloso. Quando aveva 17 anni, chiese al padre se il fratello Giulio poteva partecipare a una gara ciclistica in un paese vicino e… successe il miracolo. Il padre rispose: ‘Casomai partecipi tu, che con questa storia del ciclismo non ci dormi’. Gino scappò via per la felicità e per non scoprire che quelle parole non fossero vere. Naturalmente vinse la gara. Fu poi squalificato perché per partecipare non poteva avere più di sedici anni e lui li aveva superati, ma quella vittoria sancì lo stesso che era diventato un corridore.
Ora i genitori gli consentivano di allenarsi, ma per non deluderli lui lo faceva alzandosi alle quattro del mattino. Si recava poi a scuola e successivamente a lavorare da Sizzi. Problemi? Tantissimi, a cominciare dal fatto che ad andare in bici gli si laceravano le scarpe. S’inventò di rinforzarle con suole di copertoni. E poi, per fare soldi escogitò anche di cedere le vittorie a compagni che lo pagavano. Loro si accontentavano solo di vincere, e davano i soldi a lui, che al contempo intascava anche quelli del secondo premio. I dirigenti però non tardarono ad accorgersi che Gino si vendeva le vittorie. Allora gli offrirono uno stipendio di 5 lire a corsa, compenso standard per un primo piazzamento. La sua bibbia, era un libretto di un autore olandese che illustrava 24 esercizi per ciclisti. Gino la seguiva con un tale accanimento che in un anno la sua circonferenza toracica aumentò di otto centimetri. Aveva anche la fissa di registrare su un’agenda tutti gli esperimenti nuovi che faceva per esercitarsi, ed ecco arrivare per lui il soprannome di ragioniere. Doveva assolutamente curare al meglio la sua alimentazione, Gino, e con le sue finanze non riusciva, ma i compaesani cominciarono a cibarlo per consentirgli di migliorare le sue performance. In particolare un macellaio vicino di casa gli regalava bistecche prima delle gare. Per il forte dispendio calorico, aveva anche bisogno di aumentare le porzioni. Arrivò a mangiare una dozzina di uova durante ogni competizione, aprendole sul manubrio e succhiandole in corsa. In una sola corsa una volta divorò un pollo e un coniglio insieme.
Allora non si sapeva ancora che la digestione dei pasti proteici sottrae sangue ai muscoli e arreca anche nausea.
Gli sportivi vivevano grandi affanni per fare cose sbagliate.
Insieme a lui si allenava suo fratello Giulio. Entrambi sarebbero entrati nella dinastia del ciclismo. Esso attirava tutti, persino i campagnoli. Anzi, proprio per loro il giro d’Italia è’ l’unico spettacolo, la visione fuggitiva di un mondo lontanissimo che corre da una grande città a un’altra e collega l’Italia intera in un unico anello’. La popolarità del ciclismo in quegli anni travolse tutta l’Europa e si affermò celermente anche negli USA e in America latina. Gino si allenava rabbiosamente, febbrilmente, ed era spietato con se stesso. Aveva il naso storto per una frattura subita tempo prima, che gli aveva anche lasciato una cicatrice a stella sulla punta del naso aquilino. Era un tipo segaligno, sulle braccia ben disegnato il disegno delle vene. Un giornalista le aveva descritte come edera rampicante sul tronco di una quercia; lui però si arrabbiava quando facevano riferimento alla sua magrezza. Il suo peso forma era di soli 68 kg. Maniaco nell’osservare gli avversari, non esitava ad entrare nelle loro stanze per spiare, scoprire quali boccette di farmaci fossero in bagno, anche se a quell’epoca per lo più si trattava di banali preparati a base di vitamine. In breve tempo divenne il capitano di una squadra di professionisti e cominciò a guadagnare così bene da far costruire una villa a due piani per i suoi genitori, non lontano da Firenze. Era appena maggiorenne e già godeva di popolarità e agiatezza. Anche Giulio si faceva notare tra i dilettanti. Il 14 giugno del 1936 Gino si trovava a Torino per disputare una gara che fu annullata per via della pioggia. Una settimana prima aveva vinto il suo primo giro d’Italia. Giulio, miglior dilettante della Toscana, gareggiava invece nel campionato regionale, che nonostante la pioggia non si fermò. Un conducente che non aveva visto le segnalazioni di gara lo investì colpendolo in pieno e causandone la morte, che avvenne il giorno dopo in ospedale tra le braccia del fratello.
Gino per il profondo dolore smise di correre e si isolò in una casa al mare. Trascorse tutta l’estate sgomento, disperato, indeciso su cosa fare, sino a quando comparve all’orizzonte Adriana, una giovane donna che non sapeva niente di ciclismo. Lavorava come commessa a Firenze in un negozio. Tra i due nacque una storia di sguardi, e così…
Nel 1937 Gino non solo riprese a correre, ma decise di tentare un’impresa impossibile, mai riuscita. Vincere prima il giro d’Italia e poi quello di Francia. Tra le due competizioni, un intervallo di sole 4 settimane. A marzo però contrasse una brocopolmonite che fece impazzire i suoi cari di preoccupazione. Sei settimane dopo, a maggio, non solo gli fu dato il permesso di gareggiare, ma addirittura vinse il giro d’Italia. La stampa lo osannò come un dio.
La recente polmonite e i timori dei suoi genitori lo frenavano nell’intraprendere il tour, ma le sue titubanze dovettero – lo chiamavano tra l'altro il fraticello, ennesimo soprannome, per la sua fede alla chiesa e l’assiduità con cui andava a messa - cedere di fronte ai dictat del Fascio ed intraprendere la gara, ma una sfortuna inusitata si accanì contro di lui. Il compagno di squadra Rossi scivolò e cadde. Per non travolgerlo Gino sterzando andò a sbattere contro il parapetto del ponticello. Dopo un volo di tre metri, piombò nel torrente. Lo soccorsero, gli fasciarono il torace, i dirigenti vollero che si ritirasse.

Il Tour de France inizialmente era di 35 giorni, che poi furono ridotti a 19, ma rappresentava lo stesso un’ardua impresa. Ai suoi esordi, nel 1903, 60 corridori partirono da Parigi per disputare una gara ai confini dell’impossibile. 2400 km per percorrere la Francia in senso orario. Partenze a orari assurdi, tipo le due del mattino o le undici di sera, tutto per far sì che le testate giornalistiche fossero sempre in grado di sfornare notizie fresche sul tour. A quei tempi, i tifosi amavano toccare stringere abbracciare i ciclisti, e ne intralciavano non poco le performance. A Nimes una volta i ciclisti dovettero scendere dalle bici ed usarle come scudi per farsi strada tra la folla. Nel 1919 anche la Francia fu afflitta da penuria di cibo e beni industriali. I corridori cucivano sulle loro maglie qualcosa che servisse ad identificare le squadre. A metà giro si decise che il leader del tour indossasse una maglia colorata perché meglio identificabile. Nacque così la maglia gialla, indossata dal primo in classifica. Il tour era un grande business, sia per le testate giornalistiche (l’Auto-Velo passò da 200.000 a 500000 copie), sia per le case di bici, che cominciarono a fare da sponsor alle squadre. Gli sponsor mettevano sotto contratto i gregari, che aiutavano i corridori a vincere. Chi erano?
In pratica erano i domestici dei corridori. Li seguivano durante tutta la gara, spianando la strada, portando cibi e bevande ed occupandosi anche di aiutarli e pulirli mentre si liberavano l’intestino. C’è da dire che negli anni 30, gli anni di Gino, però, gli organizzatori avevano già ridimensionato i compiti dei gregari, eliminando quelli più disdicevoli e i ciclisti mangiavano in posti prefissati. Inoltre era diventato proibito saccheggiare da parte loro bar e trattorie incontrate lungo la strada, andando via senza pagare.
In quegli anni le montagne erano davvero insidiose, sia per le salite, sia perché paurosamente esposte a venti e temporali. Insidiose anche per i saliscendi, che sfiancavano i ciclisti, infine le discese, dove essi tentando di recuperare minuti persi rischiavano ogni volta di perdere il controllo della bici e ‘lasciare carne sulla strada’. La stampa francese definiva i tratti più difficili ‘a tomba aperta’.
Il 5 luglio 1938 i ciclisti del Tour de France lasciarono Parigi ed andarono in senso antiorario a studiare il percorso. All’attenzione del mondo erano Italia Francia e Belgio.
Il 14 luglio 1938 si radunarono sulle montagne 50000 persone.
Ginettaccio su quelle montagne sputò sangue, ma ogni volta si riprese come spinto da una catapulta. A Briancon il gigante della montagna tagliò il traguardo con più di 5 minuti di vantaggio sul secondo. Le sue gesta divennero leggenda.
La mattina del primo agosto centinaia di persone aspettavano fuori allo stadio Parco dei Principi di Parigi. A mezzogiorno ad osannare i campioni del ciclismo erano in 20000. I ciclisti sfoggiavano maglie calzoncini e calzettoni nuovi. Non Gino, però, che si presentò con la stessa maglia con cui aveva corso, nera di fango e zuppa di sudore.
Una volta in Italia, lui omise nel suo discorso di ringraziare il duce. Questo gli costò un ridimensionamento della sua vittoria da parte della stampa fascista. Il giorno dopo come prima cosa si recò a messa.
Tra alti e bassi, tallonato dal suo rivale Fausto Coppi, Bartali visse una carriera leggendaria, che lo portò tra le altre cose a indossare 20 volte la maglia gialla e 50 la maglia rosa. La sua fulgida carriera durò più di 20 anni, dopodiché si occupò comunque di ciclismo rivestendo altre cariche.
Ebbe tre figli e mori a 86 anni per un attacco di cuore.
Tra il 43 e il 44 salvò la vita a circa 800 ebrei. Facendo 185 Km al dì in bicicletta, andava ogni giorno da Assisi a Firenze. Ad Assisi, dove c’era una stamperia clandestina, caricava documenti falsi nascondendoli nel manubrio della sua bici. Li portava poi a Firenze per consegnarli al vescovo, che a sua volta li consegnava agli ebrei per farli espatriare. Se preso, sarebbe stato fucilato.
Altri li salvò ospitandoli a casa sua, nonostante avesse un figlio piccolo.
Questi suoi gesti eroici furono da lui sempre nascosti e confidati solo al figlio Andrea quando si fece grande, che li ha resi pubblici solo dopo la sua morte. Il 25 aprile del 2006 ha ricevuto dal Presidente Ciampi, alla memoria, la medaglia di campione del mondo.
Nel 2013 gli è stata assegnata dallo stato di Israele l’onorificenza di Giusto per le nazioni.

Vittorie

Giro d’Italia: 1936-1937-1946
Tour de France: 1938-1948
Milano-Sanremo: 1939-1940-1947-1950
3 Giri di Lombardia: 1936-1939-1950
2 Giri di Svizzera: 1946-1947
4 Maglie di Campione d’Italia: 1935-1937-1940-1952
5 Giri di Toscana: 1939-1940-1948-1950-1953
3 Giri del Piemonte: 1937-1939-1951
2 Campionati di Zurigo: 1946-1948
2 Giri di Emilia: 1952-1953
2 Giri di Campania: 1940-1945
Coppa Bernocchi: 1935
Le Tre Valli Varesine: 1938
Il Giro di Normandia: 1949
Il Giro dei Paesi Bassi: 1935

Norma D'Alessio